Concorso, Racconta un libraio, Racconti del concorso

“Farfalle di fuoco” di Andrea Siviero

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Quella notte Ledesma aveva sognato sua moglie. Non la donna opaca e appassita degli ultimi giorni, ma la ragazza florida e solare appena arrivata dall’Italia, la ragazza più bella che avesse mai visto, più bella anche di Evita, ed erano in gita sul Paraná. Nel sogno c’era un molo lunghissimo, e in fondo al molo sua moglie, seduta su una barchetta bianca, leggeva un libro. Accanto alla barca c’era un ragazzo; dava le spalle a Ledesma e trafficava con le cime. Stavano per partire, si capiva, e non lo stavano aspettando. Allora Ledesma aveva iniziato a correre lungo il molo e a urlare: «Aspettatemi! Sono qui! Arrivo! Aspettatemi!», ma sembrava che né sua moglie né il ragazzo lo potessero udire. E allora Ledesma continuava a correre e urlare: «Aspettatemi! Aspettatemi!», ma non c’era nulla da fare: il molo sembrava infinito e la barchetta si era staccata dall’ormeggio e si stava allontanando trascinata dalla corrente.

Quando Ledesma si alzò dal letto aveva ancora nelle retine l’ultima immagine del sogno: lui, in piedi, alla fine del molo, con le braccia abbandonate lungo i fianchi e lo sguardo perso nelle acque del Paraná scintillanti sotto i raggi del sole. La barchetta con sua moglie: una scintilla qualsiasi sulla superficie del fiume.

Ledesma aprì la finestra: quella mattina il cielo di Buenos Aires era di un azzurro limpido, così nitido e abbagliante da ferire gli occhi. L’aria, carica dell’umidità e degli odori del fiume-mare, penetrò nella camera da letto scacciando l’atmosfera di chiuso. Ledesma si accese una sigaretta guardando le chiome degli alberi di plaza San Martín che ondeggiavano nella brezza tiepida dell’autunno. In basso, automobili, colectivos, biciclette e pedoni si contendevano le strade e i marciapiedi attorno al grande giardino centrale. In quello stesso giardino, alcuni vecchi seduti sulle panchine osservavano il via vai di macchine e di uomini rievocando i tempi in cui anche loro avevano partecipato alla disputa del giorno e della terra.

Ledesma spostò lo sguardo verso la Torre degli Inglesi: le lancette dell’orologio segnavano le otto e mezza. Per le nove sarebbe dovuto scendere ad aprire la libreria. Allora spense la sigaretta, andò in bagno a lavarsi e si trovò a fare i conti con la propria immagine riflessa nello specchio: esaminò il viso smunto, la barba sottile e rada, i capelli bianchi, e pensò che lo specchio del bagno fosse una gran carogna. Per protesta si vestì voltandogli le spalle: quello specchio gli ricordava che sua moglie sarebbe rimasta la stessa per l’eternità, mentre lui, giorno dopo giorno, si stava allontanando dall’uomo che era stato. Mi riconoscerà quel giorno?, si domandò.

Prima di uscire dall’appartamento, Ledesma si fermò a fissare il calendario appeso accanto alla porta d’ingresso: 30 aprile 1976. Sarebbero stati trentasette anni di matrimonio, pensò.

Nella prima ora era entrata in libreria soltanto una signora di mezza età. Aveva comprato un romanzetto d’amore dalla copertina rosa pastello, uno di quelli che non nascondono nulla al lettore, non lo sorprendono e non lo inquietano, anzi, non devono farlo: non è il compito per cui sono stati scritti, quei libri sono nati per dare conferme e tra le conferme più comuni c’è senz’altro una storia d’amore a lieto fine; nonostante detestasse quel genere di romanzi, Ledesma pensò che in quei tempi cupi fosse naturale che i clienti si rifugiassero in letture così. Perché in tempi in cui la realtà pesa come le montagne, anche la leggerezza di un romanzo rosa può dare il senso per guardare avanti: in tempi colmi d’inquietudine, non ha senso altra inquietudine. Ma questo era soltanto un pensiero passeggero, nato per scacciare il senso di solitudine con cui si era svegliato quella mattina, quando aveva sognato sua moglie che si allontanava sulle acque del Paraná insieme al loro figlio: ora gli era chiaro, quel ragazzo che scioglieva le cime era il loro Gustavo.

Ledesma accese la radio che molti anni prima aveva acquistato per sua moglie. Gli scaffali della libreria accolsero le note della Rapsodia di Gershwin. Come tutte le volte che accendeva la radio, gli tornò in mente il giorno in cui l’aveva acquistata. Si era fatto impacchettare l’apparecchio dalla commessa del negozio, con i nastrini e tutto il resto, e aveva comprato un biglietto di auguri di carta di riso. Si era presentato all’ospedale con quella scatola ingombrante tra le mani. Come al solito l’aveva fermato suor Juanita all’ingresso del reparto: «Oh sorella, come sta?» aveva detto Ledesma. «La scatola?». «È un regalo per il compleanno di mia moglie. Come dice sorella? Prega sempre per la mia Giannina? La ringrazio, la ringrazio, ma non c’è nulla da pregare, sorella, bisogna solo aver fiducia nella scienza dei medici».

 Quel giorno Ledesma era stato fermato anche dal primario. Quel medico che era sempre così distaccato nei confronti dei pazienti e dei loro parenti, sempre così attento a mantenere le distanze, lo aveva invitato ad accomodarsi nel suo studio: «Prego signor Ledesma» aveva detto il dottore, «prego, si accomodi sulla poltrona, appoggi pure a terra la scatola». Il primario aveva un tono fraterno, ecco, si era seduto anche lui, e si era sporto in avanti, aveva accorciato le distanze e stava piantando gli occhi in quelli di Ledesma. «È grave, vero?» disse Ledesma. «Sì» rispose il medico, «le resta poco». «Quanto?». «Non si può dire» rispose il medico, «settimane, un mese forse».

Ledesma prese a fissare il pacco tra i suoi piedi. Avrei dovuto spendere i soldi in un ospedale migliore, pensò, una clinica privata, una di quelle dei ricchi, perché i ricchi li curano i dottori migliori, e di sicuro questo dottore si è sbagliato, forse questo ospedale non ha abbastanza soldi per degli esami più approfonditi, ecco. «Cosa dovrei fare, dottore?» disse Ledesma. «Mi ascolti bene signor Ledesma, la cosa più importante è la serenità: faccia di tutto per mantenere la serenità di sua moglie». «Mia moglie lo capisce» disse Ledesma, «mi conosce troppo bene, le basta guardarmi per leggermi la verità in faccia». «Allora dovrà dire a sua moglie tutta la verità che è pronta ad accettare» affermò il dottore. «E se non ce la facessi? Vede, mia moglie è una donna forte» disse Ledesma, «è più coraggiosa di me, e se non ce la facessi a dirle la verità?».

Mentre si avvicinava alla camera di sua moglie con l’anima sotto ai piedi, Ledesma conobbe per la prima volta la solitudine. La sua Gianna stava riposando nel letto d’ospedale, era così rilassata e candida, sembrava la sua Giannina di sempre, non poteva essere sul punto di morire, il dottore doveva essersi sbagliato. Se solo fosse qui nostro figlio, pensò, se solo fosse qui saremmo ancora una famiglia, per l’ultima volta una famiglia. Ledesma posò la scatola su una sedia ai piedi del letto, l’aprì, tirò fuori la radio, la collegò alla presa elettrica e mise sul piatto il disco con la loro canzone.

Ora non suonava più alcun disco. Anche la Rapsodia era terminata. Tra le pareti della libreria adesso risuonava la voce neutra e impostata e senza accenti del giornalista del radiogiornale: «Ieri a Córdoba, presso il quartier generale del quattordicesimo reggimento fanteria, è stata distrutta una notevole quantità di documentazione di carattere sovversivo. In tale occasione è stato divulgato il seguente comunicato stampa: “Il capo del terzo corpo d’armata dell’esercito informa che in data odierna procede a incenerire la documentazione perniciosa che influisce sull’intelletto e sulla nostra cristianità. È stata presa questa decisione con il fine che non rimanga alcuna parte di questi libri, opuscoli, riviste perché con questo materiale non si continui a ingannare i giovani riguardo i nostri principi spirituali che sono Dio, la Patria e la Famiglia. Nello stesso modo in cui distruggeremo con il fuoco questa documentazione, saranno distrutti i nemici dell’anima argentina”».

Ledesma spense l’apparecchio appena il giornalista ebbe terminato di elencare con una voce senza anima i libri e gli autori illegali. Cercò di immaginare come doveva essere stato il rogo: saggi, romanzi, libri per l’infanzia, scatoloni interi di opere appena uscite dalle tipografie, opuscoli, riviste e giornali, tutto a formare colline di carta sul freddo cemento di un cortile. Immaginò il plotone incaricato dell’esecuzione distribuire il cherosene e poi accendeva piccoli fuochi periferici. Immaginò i fuochi in una violenta corsa dalle valli alle cime delle colline, e uomini disposti in cerchio attorno alle fiamme. Quel falò doveva aver calamitato l’attenzione di tutti i soldati e degli ufficiali, e tra questi ultimi anche quella di suo figlio Gustavo: il quattordicesimo fanteria era il suo reggimento. Chissà a cosa aveva pensato suo figlio quando le fiamme avevano avvolto i volumi e avevano trasformato le pagine in milioni di piccole farfalle di fuoco. Chissà se Gustavo, nell’ammirare quell’incendio, aveva ripensato a molti anni prima, al giorno in cui era stato accompagnato al collegio militare; chissà se aveva sfogato così l’incontenibile rabbia del primo anno trascorso a subire i soprusi degli anziani, quando aveva implorato di essere riportato a casa; chissà se aveva pensato a quell’azione contro i libri come una vendetta personale.

Ledesma ripensò ancora una volta al sogno. Quello del sogno era un Gustavo eventuale; il Gustavo che avrebbe potuto essere e che non era stato: quello morto il giorno stesso in cui era entrato nel collegio militare. Ledesma si sentiva in colpa: forse era stato prematuro spedirlo in collegio, prima o poi suo figlio avrebbe trovato la sua strada, avrebbe dovuto soltanto concedergli il suo tempo. Gustavo era soltanto un ragazzino vivace, che non aveva mai avuto voglia di studiare, un’anima gitana che combinava sempre qualche pasticcio e che dava un sacco di pensieri, ma era un bravo ragazzo, ecco. Adesso, dopo tanti anni, Ledesma si era pentito di non aver avuto pazienza con suo figlio. Avrei dovuto portarlo con me in libreria, pensò, il lavoro avrebbe attenuato quell’irrequietezza, non avrei dovuto abbandonarlo così. E gli vennero in mente ancora le parole che aveva ripetuto più volte a sua moglie, quando l’aveva convinta che il collegio sarebbe stata la scelta giusta per il loro Gustavo: «Vedrai che quando tornerà sarà diverso», aveva detto allora, «capirà che lo abbiamo fatto per il suo bene».

Il bene, pensò Ledesma, ho pensato al bene di mio figlio e ho creato un mostro. Perché solo un mostro può partecipare a uno scempio del genere. E chissà che cosa c’è nei cuori dei suoi compagni; chissà quale risentimento deve muovere le azioni di questa banda che ha assunto la guida del Paese. Non è solo ignoranza questa, o stupidità. C’è del risentimento. C’è della rabbia compressa per anni. Chissà quante rabbie diverse generano un odio così feroce. Per quello che riguarda me e mio figlio, sono stato sordo, ecco, non ho voluto ascoltare. E muto, anche: non ho voluto parlare quando era l’ora di parlare. E ho chiuso gli occhi quando avrei dovuto vedere. E ho smesso di pensare: è stato l’errore fatale smettere di pensare. Ho cercato di progettare il futuro di mio figlio nella maniera più conveniente per il mio tornaconto e la conseguenza è stata questo mostro. Chissà se l’avessi lasciato libero di crescere secondo la sua natura, pensò Ledesma, è possibile che Gustavo avrebbe continuato a saltare la scuola per andare a giocare al fútbol, e magari avrebbe continuato a condurre quella sua giovinezza scriteriata per le strade del quartiere. Magari avrebbe messo la testa a posto, prima o poi; forse sarebbe persino tornato a studiare, o avrebbe avuto voglia di lavorare in libreria, o sarebbe diventato un delinquente, non si può dire, ma di sicuro non lo avrei perduto per avere in cambio un mostro.

Durante il resto della giornata Ledesma riunì tutte le opere degli autori “sovversivi” che aveva sentito nominare alla radio, e i cataloghi completi di case editrici anch’esse “sovversive”. Sistemò tutto in alcune scatole di cartone che aveva recuperato nel retrobottega della libreria. Poi prese le scatole e se le portò su nell’appartamento. Le sistemò tutte nella stanza di suo figlio. Gli sembrò naturale nascondere lì le scatole piene di libri. Quando ebbe finito il lavoro andò alla finestra e guardò la statua del libertador al centro della piazza. Per l’ultima volta Ledesma era tornato sul sogno della notte precedente: ora capisco, pensò, vi ho perduto proprio nel momento in cui ho pensato di fare la cosa giusta per voi. Gianna, avrei dovuto dirti che stavi per morire, e invece ho continuato a dirti che saresti guarita. Gustavo, avrei dovuto tenerti con me, e invece ti ho abbandonato.

Ledesma guardò ancora la statua di José de San Martín. Quell’uomo ha liberato il Paese, pensò, io ho liberato la mia anima. Prima di uscire dalla stanza scrisse un biglietto per suo figlio: «Ti lascio questi libri in eredità. Tuo padre».

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Farmacista di mestiere, Andrea Siviero quando non dispensa medicine è un appassionato di divano & letteratura, meglio se latinoamericana. Qualche volta si dedica alla scrittura su bookpills.wordpress.com e TreRacconti.it. Nel 2015 ha partecipato al concorso Racconta un libraio, classificandosi tra i primi 9 finalisti.

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